Togliamo il freno a mano alla leadership femminile

Togliamo il freno a mano alla leadership femminile

La leadership femminile progredisce col freno a mano tirato: molta fatica per avanzare lentamente e tanto attrito: si rischia di rovinare la macchina e non ci si diverte.

Riassumo la situazione: nel settore privato le donne sono il 38% dei dirigenti e quadri ma solo il 16% dei dirigenti (l’immagine del tetto di cristallo sarà anche trita, ma rende sempre bene). Le donne amministratrici delegate sono il 4% nelle aziende il cui fatturato superi i 200 ML di euro (la percentuale arriva al 10% in quelle sotto i 50 ML). Si stima che le donne in posizioni executive (i primi due livelli di riporto dell’AD) siano circa il 10% ma il dato finora non è stato rilevato in modo sistematico, il che la dice lunga sull’attenzione posta al bilanciamento della leadership. Nel settore pubblico la presenza femminile tra i dirigenti è maggiore rispetto al privato: in Magistratura è il 46%; nei Ministeri è il 36%; in Banca d’Italia è il 22%; nella Sanità è il 18%. Nelle Università le donne sono il 20% dei professori ordinari e il 34% dei professori associati. Se però si sale ai livelli superiori, i numeri diminuiscono anche lì drasticamente.  Considerando che le donne si laureano meglio e prima degli uomini, i dati lasciano un po’ perplessi. Siamo di fronte a un giallo appassionante: chi fa fuori le donne?

C’è una spiegazione semplice e legata alla biologia (sempre diffidare delle spiegazioni troppo semplici, però). Le donne fanno i figli, dice questa teoria. E quanti? In Italia il tasso di fecondità è circa 1,4. Danno un bel daffare questi bambini, uno pensa, se questo è l’effetto sulle carriere. Infatti non è così: Svezia e Francia, tanto per dirne due, dove ci sono più donne nella leadership hanno un tasso di fecondità 1,8; gli USA un po’ più di 2. Ovviamente i bambini sono un carico di lavoro in più per le donne, specie se mancano gli asili nido e i mariti non fanno nulla, ma lasciamo stare le creature (che non si possono difendere). Sappiamo infatti che il problema che rallenta il progresso delle donne nelle organizzazioni, nel XXI secolo, è principalmente culturale (e sappiamo che il tasso di fecondità correla positivamente con la partecipazione alla forza lavoro delle donne, cioè nei paesi dove si fanno più figli le donne lavorano di più).

Quello che serve per uscire dall’impasse è un cambio deciso di percezione riguardo al ruolo delle donne nella leadership. Dobbiamo smettere di alzare le spalle quando vediamo solo uomini ai vertici delle organizzazioni. Dobbiamo farci delle domande sui talenti sprecati, sulla  meritocrazia tradita dai pregiudizi inconsci e su cosa questo voglia dire per il Paese, oltre che per le donne.

Ha senso che siano meno di una su dieci? Questo fatto riflette le decisioni di acquisto? (No, le donne prendono l’85% delle decisioni d’acquisto). Riflette i talenti? (No, ci sono più laureate donne, anche se le facoltà in cui si laureano spesso non sono quelle che fanno da trampolino). Riflette la necessità di avere gruppi diversi e capaci di innovare? (No, c’è una tonnellata di letteratura che lo dice).

Ma se riflette solo il passato, voltiamo lo specchio verso il futuro prima che sia troppo tardi. Il futuro di cui abbiamo urgentemente bisogno ha una leadership bilanciata. Se vi interessa questo argomento, guardate il sito del 30% Club, una campagna globale per raggiungere il 30% di donne nella leadership (primi due riporti del vertice) entro il 2020. Sta arrivando in Italia.